Corte di Giustizia UE – Mandato di Arresto Europeo: la facoltà di rifiutare l’esecuzione di un MAE affinché la pena sia eseguita nello Stato membro di residenza deve potersi applicare anche ai cittadini di paesi terzi

Con sentenza del 6.06.2023 nella causa C-700/21 la grande sezione della CGUE ha affermato che il diritto dell’Unione europea osta ad una normativa nazionale – come quella italiana di recepimento della  Decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002 – che circoscriva la possibilità di rifiutare l’esecuzione del MAE unicamente alle ipotesi di cittadini italiani o cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea che presentino legami con l’Italia, con esclusione dei cittadini di paesi terzi. E ciò in quanto una simile disposizione contrasta con il principio di parità di trattamento sancito dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.  

La vicenda trae origine dalla richiesta di MAE finalizzata all’esecuzione di una pena detentiva avanzata da un tribunale della Romania nei confronti di un cittadino moldavo stabilmente residente in Italia. La Corte d’Appello di Bologna, non potendo legittimamente rifiutare l’esecuzione del MAE pur rilevando lo stabile radicamento familiare e professionale della persona ricercata, adiva la Corte Costituzionale italiana che, a sua volta, disponeva un rinvio pregiudiziale alla CGUE che rendeva la decisione in commento.

Notoriamente il rinvio pregiudiziale consente ai giudici degli Stati membri, nell’ambito di una controversia della quale sono investiti, di interpellare la CGUE in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione. La decisione della CGUE, pur non risolvendo nel merito la controversia nazionale, vincola i giudici nazionali a statuire sula controversia attenendosi all’interpretazione del diritto europeo fornita dalla Corte. Tale decisione vincola anche gli altri giudici nazionali che debbano decidere in merito alla medesima questione.    

La Corte di Cassazione nega l’estradizione verso la Repubblica Popolare Cinese

Con sentenza n. 21125/23 del 17.05.2023 la Corte di Cassazione, ribaltando la decisione della Corte d’Appello di Ancona, ha negato l’estradizione richiesta dalla Cina nei confronti di una propria cittadina, accusata di essersi appropriata di una cospicua somma di denaro attraverso una piattaforma digitale ove svolgeva attività di raccolta del risparmio e concessione di finanziamenti in assenza di autorizzazione.

In particolare la Corte di Cassazione, citando la giurisprudenza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ( Liu c. Polonia 6.10.2022) ha affermato che, nel caso in cui l’estradizione venga richiesta dalla Repubblica Popolare Cinese, sussiste il rischio  di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti, in quanto plurime fonti internazionali affidabili dànno atto di sistematiche violazioni dei diritti umani e del tollerato ricorso a forme di tortura, nonché della sostanziale impossibilità, da parte di istituzioni ed organizzazioni indipendenti, di verificare le effettive condizioni dei soggetti ristretti nei centri di detenzione.

Tale rischio, ha motivato la Corte, non è escluso per effetto delle rassicurazioni, del tutto generiche, fornite dall’Autorità cinese. In motivazione la Cassazione ha altresì fatto cenno alle condizioni del fratello dell’accusata, sottoposto a detenzione illegale in patria nel presumibile intento di indurre la donna a far rientro in Cina.  

La Corte di Cassazione torna ad occuparsi di atti abnormi

Il caso trae origine dal decesso avvenuto nel 2016 di un giovanissimo motociclista romano che, mentre percorreva la SS Colombo perdeva improvvisamente il controllo del mezzo e veniva sbalzato contro un albero. Una morte, quella del giovane, che ha suscitato numerosi interrogativi circa la sicurezza e la manutenzione di una strada tristemente nota a livello locale per l’elevato numero di incidenti.
La Procura della Repubblica di Roma, dopo aver inizialmente aperto un fascicolo a carico di ignoti ipotizzando il reato di omicidio colposo, chiese l’archiviazione. Il GIP, dal canto suo, respingeva la richiesta invitando il pubblico ministero “ad individuare i responsabili della manutenzione ordinaria e straordinaria” della strada e ad “esercitare l’azione penale per l’ipotesi di omicidio colposo”.
Contro questa ordinanza ricorreva per Cassazione la Procura di Roma, lamentando l’abnormità dell’atto e l’ingerenza, da parte del GIP, delle prerogative del pubblico ministero in tema di esercizio dell’azione penale.
Con sentenza 18758/22 la Suprema Corte ha accolto il ricorso della Procura evidenziando come il giudice delle indagini preliminari non possa in alcun modo surrogarsi all’organo d’accusa, cui è rimessa ogni valutazione e decisione in ordine al tempo e al modo di svolgimento delle indagini.
La sentenza merita in ogni caso di essere segnalata in quanto contiene una interessante ricognizione dei cd. “atti abnormi” commessi dai GIP. Notoriamente gli “atti abnormi” sono quelli che, pur non presentando vizi di legittimità riconducibili a quelli tassativamente stabiliti dall’art. 606, comma 1, cod. proc. pen., presentano comunque anomalie genetiche o funzionali, che li rendono difformi ed eccentrici rispetto al sistema
processuale e con esso radicalmente incompatibili.

Sull’illegittimità costituzionale dell’art. 726 c.p. (atti contrari alla pubblica decenza)

Con sentenza n. 95 del 9 marzo – 14 aprile 2022 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 726 c.p. nella parte in cui prevede la sanzione amministrativa pecuniaria «da euro 5.000 a euro 10.000» anziché «da euro 51 a euro 309», operando così un riallineamento della cornice sanzionatoria della norma in esame rispetto a quella prevista
dal codice penale per gli atti osceni commessi con colpa ai sensi dell’art. 527 comma 3 c.p.
Nella propria decisione la Corte ricorda che il principio della proporzionalità, che trova fondamento nell’art. 3 Cost., trova applicazione non solo con riferimento alle norme penali ma anche rispetto alla materia delle sanzioni amministrative. Pertanto, in applicazione del suddetto principio, la Corte Costituzionale ha ritenuto condivisibili le valutazioni espresse dal giudice di pace di Sondrio a mente delle quali la sanzione pecuniaria prevista dalla legge per gli atti contrari alla pubblica decenza (da euro 5.000 a euro 10.000 prevista) appare del tutto sproporzionata rispetto a quella prevista per la fattispecie, addirittura più grave, di atti osceni commessi con colpa ex art 527 comma 3 c.p. (da 51 euro a euro 309).
E tale irragionevole disparità di trattamento sanzionatorio si rivela ancor più ingiustificata se si considera che la norma dichiarata incostituzionale non effettua alcuna distinzione tra fattispecie dolose e fattispecie colpose a differenza di quanto avviene nel caso dell’art. 527 c.p. Da cui la declaratoria di illegittimità costituzionale della cornice sanzionatoria prevista dall’art. 726 c.p.

IL REATO DI OMESSA DICHIARAZIONE NON SI CONFIGURA NEL CASO DI PRESENTAZIONE NEI TERMINI DI UNA DICHIARAZIONE INCOMPLETA

La Corte di Cassazione è recentemente tornata sul reato di omessa dichiarazione ex art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000 affermando che la presentazione, nei termini previsti dalle leggi tributarie e nel rispetto delle soglie individuate, di una dichiarazione incompleta non integra il reato in esame quanto la condotta incriminata dalla norma consiste unicamente nella mancata presentazione tout court della dichiarazione.

La Suprema Corte, infatti, nella sentenza n. 5141/22 del 14.02.2022 ha ricordato che il principio di legalità e di divieto di analogia che governano il diritto penale italiano impongono di individuare con precisione la condotta incriminata senza estenderne la portata a fatti da questa non espressamente contemplati.

Il caso sottoposto all’attenzione della Corte è di particolare interesse in quanto trae origine dalla vicenda di presentazione di una dichiarazione che, pur essendo intervenuta nei termini, era sostanzialmente “in bianco” per essere stata del tutto omessa la compilazione del quadro RS relativo ai redditi.

LA PRESENZA DI RILEVANTI LEGAMI FAMILIARI IN ITALIA E’ MOTIVO OSTATIVO ALL’ESPULSIONE DELLO STRANIERO IRREGOLARE

E’ quanto si ricava dall’ordinanza n. 4745/2022 del 14.02.2022 della Corte di Cassazione che ha annullato la decisione del Giudice di Pace di Lecce che aveva confermato il decreto di espulsione emesso nei confronti di un cittadino straniero.

In particolare nella propria decisione la Suprema Corte rileva proprio come il Giudice di Pace abbia omesso di valutare la rilevanza dei legami familiari dello straniero quale eventuale motivo ostativo all’espulsione come stabilito dall’art. 13 comma 2 bis del T.U. Immigrazione.

Nel caso di specie, infatti, il provvedimento di espulsione era stato emesso nei confronti di uno straniero che viveva in Italia da vent’anni con la moglie ed il proprio figlio e di cui anche i parenti di primo e secondo grado erano stabilmente radicati in Italia ed erano titolari di carta di soggiorno a tempo indeterminato.   

Una decisione, quella in commento, che sicuramente rimarca l’importanza di una valutazione molto spesso trascurata nei provvedimenti espulsivi adottati dall’Amministrazione, che in genere ricorre a mere clausole di stile senza effettuare una reale valutazione caso per caso, della rilevanza e della consistenza dei legami familiari dello straniero in Italia.  

PROTEZIONE INTERNAZIONALE: DOVERE DEL GIUDICE DI AGGIORNARE D’UFFICIO LE INFORMAZIONI RELATIVE AL PAESE DI PROVENIENZA DEL RICHIEDENTE CHE SIANO POSTE A FONDAMENTO DELLA DECISIONE

Con la recente ordinanza n. 8375/22 del 15.03.2022 la sesta sezione civile della Corte di Cassazione ha affermato il principio per cui nei giudizi di protezione internazionale, al di là del dovere del ricorrente allegare e dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari, la valutazione delle condizioni socio-politiche del paese d’origine del richiedente deve avvenire tramite l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche, di cui si dispone pertinenti al caso, aggiornate al momento dell’adozione della decisione.

In particolare, osserva sempre la Cassazione, il giudice del merito non può limitarsi a valutazioni solo generiche essendo, invece, tenuto ad integrare egli stesso le informazioni disponibili con tutti gli accertamenti ufficiosi finalizzati ad acclarare l’effettiva condizione del Paese di origine del richiedente che siano necessari ai fini della definizione della domanda di protezione internazionale avendo cura poi di indicare, nel provvedimento decisorio, le fonti utilizzate e il loro aggiornamento (Cass. 11 dicembre 2020, n. 28349).

Una decisione, quella in commento, che riafferma l’obbligo di cooperazione istruttoria gravante anche in capo al Giudice (oltre che alle Commissioni territoriali) in virtù dell’art. 3 del d.lgs. n. 251 del 2007, e degli artt. 8 e 27, comma 1 bis, del d.lgs. n. 25 del 2008.

MINORI STRANIERI: IN ARRIVO NUOVE MODALITA’ DI ACQUISTO DELLA CITTADINANZA ITALIANA

Come molti già sapranno attualmente i minori stranieri nati in Italia possono acquisire la cittadinanza italiana soltanto col raggiungimento della maggiore età, secondo quanto previsto dall’art. 4 comma 2 L. n. 91/92.

Qualche giorno fa, tuttavia, la Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati ha adottato il testo base di una nuova proposta di legge che, se approvata in via definitiva dal Parlamento, introdurrà delle importanti novità.

Nella proposta di legge viene, infatti, previsto che il minore straniero nato in Italia o che vi ha fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età acquisterà la cittadinanza italiana a condizione che:

  1. abbia risieduto legalmente e senza interruzioni in Italia e
  2. che in Italia abbia frequentato regolarmente, per almeno cinque anni, uno o più cicli scolastici presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale triennale o quadriennale idonei al conseguimento di una qualifica professionale.

Una volta soddisfatti i requisiti previsti dalla nuova legge, la cittadinanza potrà essere acquistata tramite una semplice dichiarazione di volontà che potrà essere presentata dai genitori del minore all’ufficiale dello Stato civile del comune di residenza entro la data del compimento della maggiore età. Ove i genitori non dovessero attivarsi, lo stesso interessato potrà presentare la dichiarazione entro due anni dal raggiungimento della maggiore età.

L’approvazione di questa legge avrà delle importanti ripercussioni non soltanto per i minori interessati ma anche per le loro famiglie, dal momento in cui i relativi membri acquisterebbero lo status di familiari di cittadino italiano con tutte le conseguenze che ne deriverebbero sotto il profilo legale.  

OLTRAGGIO A PUBBLICO UFFICIALE: NECESSARIA LA PROVA CHE LE OFFESE SIANO STATE PROFERITE ALLA PRESENZA DI PIU’ PERSONE

Con la sentenza 29406/18 del 6.06.2018 la Corte di Cassazione è tornata sul tema dell’oltraggio a pubblico ufficiale ritenendo che ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 341 bis c.p. “è necessaria la prova della presenza di più persone e, solo ove risulti accertata tale circostanza, sarà sufficiente a far ritenere integrato il reato la mera possibilità della percezione dell’offesa da parte dei presenti”.

La vicenda trae origine dalle offese proferite da un cittadino nei confronti di due agenti di pg dapprima all’interno di un parcheggio comunale e, successivamente, all’interno del Comando.

La Corte d’Appello di Napoli aveva, infatti, affermato la penale responsabilità dell’imputato ritenendo che, poiché il fatto era avvenuto sulla pubblica via o, comunque, in luogo pubblico, le offese non potevano non essere state percepite anche da terze persone.

La Suprema Corte, dal canto suo, nel censurare il ragionamento della Corte territoriale, rileva come la presenza di più persone sia una circostanza che deve formare oggetto di prova specifica, non potendosi fare ricorso a valutazioni presuntive. Soltanto ove risulti provata tale circostanza, potrà allora ritenersi configurabile il reato sulla scorta della mera possibilità di percezione dell’offesa da parte dei soggetti eventualmente presenti.

CORONAVIRUS: MODULO DI AUTOCERTIFICAZIONE E REATO DI FALSE DICHIARAZIONI A PUBBLICO UFFICIALE (ART. 495 C.P.).

Come noto, il nuovo modulo dell’autocertificazione è stato integrato con il richiamo all’art. 495 c.p. che punisce con la reclusione da uno a sei anni la condotta di  “Chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona”

Per come è stato impostato il modulo di autocertificazione la sanzione sembrerebbe applicarsi a tutte le dichiarazioni mendaci eventualmente contenute nel modulo, ivi compresa la motivazione dello spostamento laddove dovesse risultare falsa. Ma è davvero così?

Una più attenta analisi della norma sembrerebbe tuttavia escluderlo.

Nella nozione di qualità personali, cui fa riferimento l’art. 495, rientrano, oltre all’identità e allo stato civile, anche altre qualità che pure contribuiscono ad identificare le persone, quali, ad es., il luogo di residenza, la professione ecc. Restano, invece, fuori dalla tutela penale le richieste dell’Autorità su qualità squisitamente personali non giustificate da esigenze di identificazione, ma rivolte ad altri fini. E’ stato ritenuto, ad esempio, che non integra il reato in parola la condotta dell’automobilista che, pur non avendo mai conseguito l’abilitazione alla guida, dichiari falsamente alla Polizia Stradale di esserne munito ma di esserne momentaneamente sprovvisto (C., Sez. V, 15.11.2012-28.1.2013, n. 4243).  Come pure non integra il reato in esame la condotta di colui che dichiari falsamente alla polizia stradale di avere una regolare polizza assicurativa del proprio mezzo (C., Sez. V, 19.1.2016, n. 9195).

In altri termini, alla luce della casistica sino ad oggi esistente, sembrerebbe che soltanto le dichiarazioni mendaci circa l’identità o le altre qualità personali che valgono ad identificare la persona potrà comportare una responsabilità penale ai sensi dell’art. 495 c.p.. Contrariamente, invece, eventuali dichiarazioni mendaci circa le ragioni dello spostamento (comprovati motivi di lavoro, di, salute, di necessità, come pure l’indicazione del tragitto),  potrebbero al più far scattare l’applicazione dell’art. 650 c.p., ma non il più grave reato di cui all’art. 495 c.p.

In ogni caso, sarà interessante vedere la casistica giurisprudenziale che si formerà sulla fattispecie nei prossimi mesi, in considerazione delle numerose denunce effettuate dalle Forze dell’Ordine negli ultimi giorni.